Orario di apertura del museo: Dal Lunedi al venerdi solo su prenotazione (ass.borgodellarte@gmail.com) sabato e domenica (senza prenotazione) dalle 10,30 alle 12,30 e dalle 16,30 alle 19,00

Italia - Artena - RM

Via Fleming 4, Granaio Borghese

Verso Sud

Verso Sud

Arpisti e musici girovaghi

 

Viggiano, posto lungo il crinale occidentale dell’alta Val d’Agri nella parte occidentale della provincia di Potenza in Basilicata, è noto per santuario della Madonna Nera che costituisce uno dei centri di spiritualità e di fede mariana più importanti del Mezzogiorno.

È altresì noto come luogo di estrazione di petrolio e per la presenza della più grande piattaforma petrolifera d’Europa. Per alcuni secoli Viggiano era conosciuta in tutta Italia per la sua tradizione legata alla musica e, in particolare, alla costruzione di arpe.

Viggiano fu nei secoli luogo di provenienza di molti suonatori itineranti che esportarono la propria musica e le proprie tradizioni in tutto il mondo. La tradizione dell’arpa lucana, documentata nel corso dei secoli in molte iconografie, era data per estinta intorno alla prima guerra mondiale, in seguito all’ultima massiccia ondata di emigrazione verso l’America e alla morte degli anziani suonatori rimasti in zona. Invece ha continuato a vivere nel silenzio fino ad alcuni decenni fa, per merito di pochi suonatori. Oggi la tradizione è stata riscoperta, non a caso il Comune di Viggiano sul proprio sito internet si definisce “Città dell’arpa e della musica”.

I suonatori viggianesi, detti a Roma “carciofolari”, erano noti come musici girovaghi, che vivevano della propria musica tutto l’anno o parte di esso, questuando e suonando Novene natalizie, tarantelle e arie di vario genere.

Nella seconda metà del XIX secolo l’arpa rientrava nella scuola di musici artigiani e meno frequentemente  veniva suonata da contadini o pastori, mentre erano molto diffusi, come già detto, i  musici “professionisti”  che vivevano prevalentemente come suonatori ambulanti.

A proposito della definizione di “carciofolari” attribuita ai suonatori d’arpa, Gioacchino Belli nel sonetto “la Novena di Natale” (1844) così scriveva:

 

Eh, siconno li gusti. Filumena

Se fa venì queli grugnacci amari

de li cechi: Mariuccia e Maddalena

Chiameno sempre li carciofolari;

E a me me pare che nun zii Novena

Si nun zento sonà li piferari

 

In questi sei versi sono indicati tutti i gruppi di suonatori che, al tempo di Belli, portavano a Roma la Novena di Natale.

I “ciechi” preferiti da Filomena; i “carciofolari” scelti da Mariuccia e Maddalena e, infine, i “pifferari” (cioè zampogna e ciaramella) secondo il gusto dell’autore.

I “ciechi” erano suonatori di violino, chitarra e bassetto, i “carciofolari” avevano le arpe con violino e triangolo.

Lo stesso Belli ci spiega che cosa fossero i “carciofolari”:

“ i carciofolà sono cantori e suonatori d’arpa, specie di bardi girovaghi, nativi per lo più degli Abbruzzi, così chiamati dalla stessa parola che un tempo terminava, quasi intercalare, le loro stroffe d’amore. Oggi sono si alquanto più raffinati. Suonano anche il violino, che sostengono avanti il ventre, col manico in su e parte sonora in giù”.

Non va dimenticato che gli “Abruzzi”, così come le “Calabrie” avevano in passato una definizione geografica assai più estesa rispetto a quella fissata dagli attuali confini amministrativi, e che spesso vi era la tendenza a collocare nelle “selvagge” terre “degli Abruzzi” tutti i suonatori ambulanti che scendevano in città, soprattutto per la Novena natalizia con gli zampognari in testa. Ancora oggi questo stereotipo resiste collocando in Abruzzo la patria di tutti gli zampognari.

 

Fonti:

“Strumenti musicali e tradizioni popolari in Italia” a cura di R. Leydi e F.Guizzi ed. Bulzoni;

“L’arpa di Viggiano” a cura di G.M. Gala ed. Taranta.

Sito web Comune di Viggiano (Pz)

 

 

MASCHERE  E DANZE RITUALI CARNEVALESCHE, NELLA NAPOLI DEL SEICENTO,

IN RIFERIMENTO AI “BALLI DI SFESSANIA” DI JACQUES CALLOT

 

La serie di incisioni di Jacques Callot (1592 – 1635) denominata  “Balli di Sfessania” si riferisce ad un ballo popolare, di discendenza carnevalesca, molto diffuso a Napoli tra il XVI e il XVII secolo, del quale fanno menzione testi letterari e poetici di scrittori dell’epoca come G.B. Del Tufo, G.B. Basile, F. Sgruttendio,  G.C. Cortese, ecc. Queste incisioni, nel corso del tempo, sono state paragonate, spesso a torto, con i comici di piazza che si esibivano a Napoli nella prima metà del ‘600. In realtà le fantasiose osservazioni del Callot trovano riscontro, oltre che nella commedia dell’arte, nei modi gestuali e coreutici  esistenti nella cultura popolare napoletana dell’epoca “in rapporto ad un probabile rituale carnevalesco, di carattere augurale e di rinnovamento stagionale”(*).

La danza di “Sfessania”, della quale non ci sono giunti documenti musicali,  è di  origine orientale (ballo moresco)  risalente probabilmente al 1500, era nota anche con il nome di Ballo alla Maltese, Catubba o Lucia Canazza.

Il personaggio principale di tale ballo era Lucia, affiancata da danzatori itifallici e demoniaci, che si esprimevano con gesti di grande erotismo ai limiti dell’osceno, usando esclamazioni ad imitazione dei gallinacei o espressioni, tipiche delle moresche napoletane, atte a riprodurre le voci delle schiave more, presenti a Napoli nel 500 e nel 600.

In merito alla caratteristica della danza, altri elementi, sia letterari che riscontrabili nella tradizione viva,  associano il ballo di Sfessania ad una danza di possessione magico-rituale. Così il Basile, facendo esplicito riferimento ai tarantati, scrisse: “Ma Lucia fece veramente da Lucia, cernennose tutta, mentre se contava sto cunto, che a l’arteteca de lo corpo se consideraie la burrasca c’aveva dinto lo core; (…) tanto fuoco l’aveva puosto  ‘n cuorpo la pipata, comme lo tarantato non se po’ spesare de li suone…” (trad.(*) ma Lucia si atteggiò veramente da Lucia, dimenandosi tutta, mentre si raccontava tale favola, così dalla smania del corpo si comprese la burrasca che aveva in cuore, (…) tanto fuoco le aveva messo in corpo la bambola, così come un tarantolato che non riesce a danzare perché non ha i denari per pagare i suonatori, …).

Altro riferimento ai ritmi sfrenati di questa danza, è nella descrizione del poeta secentesco Filippo Sgruttendio, che citando il ballo carnevalesco come Catubba, Sfessania o Lucia, ci tramanda delle espressioni tipiche mediante i motti “Tubba catubba e nania nà”  o “Pernovallà, quest’ultimo riportato dal Callot nelle didascalie a margine dei suoi disegni…”Uno canta, e più de mille fanno po’, pernovallà, e attuorno   vòtano, sautano, e sbotano, le grastolle cò sonà. Lo bedere pè na via na Catubba, che gusto è! Uno fa: cierne Lucia, n’auto dice vucciahè”.

Nel 1789 Ferdinando Galiani, nel suo “vocabolario” riporta: “ Tubba Catubba: “…vacillando,…si dice propriamente degli ubriachi, che non si reggono in piedi e che vacillanti van cadendo come i nostri Svizzeri, i di cui inciampi si succedono senza interruzione. – Sorta di ballo in contraddanza, in moda fra’ nostri padulani, e basso popolo come la Frascarola,…. Dicesi aver anche i Turchi un simil ballo, e detta Catubba ancora, nel qual pare che in ogni lor moto voglian cadere”.

In conclusione “..alla fine del 700 il termine Tubba Catubba indicava solo il gesto del vacillare, che, evidentemente, caratterizzava l’antica danza, ormai sparita dalla tradizione locale. Tuttavia l’autore del vocabolario fa cenno all’antica Catubba rituale contadina, di carattere processionale e corale, connotata da figurazioni coreutiche molto simili a quelle del cosiddetto Ballintrezzo… – e il gesto del barcollare, eseguito dai danzatori in moto processionale, si può ancora osservare nelle danze carnevalesche di Montemarano in Irpinia. Con ciò vogliamo dire che una simile danza, processionale e corale, era sicuramente praticata a Napoli nel 600…”(*).

E’ interessante ricordare che in quegli anni, molte furono le iniziative intraprese da parte della Chiesa e dall’aristocrazia per l’eliminazione di tali manifestazioni popolari, ora con bandi repressivi, ora esprimendo riprovazione e disgusto, denunciando l’esasperato erotismo delle danze popolari ed in particolare del Ballo di Sfessania “…Oscena danza – Pera il sozzo inventor, che tra noi questa introdusse primier barbara usanza. (G.B. Marino – Adone canto XX)”.

Una curiosità: nella Sinfonia che apre l’opera “L’Italiana in Algeri” di Rossini, l’autore indica sulla partitura, con il termine “Catubba”, il complesso ritmico strumentale usato per dare un colore esotico moresco alla composizione, mentre,  il duetto tra i personaggi di Giove e Marte ne “Il divertimento de’ Numi” (di G. Lorenzi con musiche di Paisiello), recita: “Che spirito? Che zubba, se le gambe mi fan tubbacatubba”.

 

(*Roberto De Simone— tratto da “Demoni e Santi—teatro e teatralità barocca a Napoli”)

 

 

LA TAMMURRIATA

 

La tammurriata, detta anche “ballo o canto sul tamburo”, è un antica forma coreutico-musicale ancora diffusa in Campania. Essa è localmente praticata in numerose varianti: dall’area domiziana – giuglianese, a quella vesuviana, sino all’agro nocerino-sarnese e a quella della costiera amalfitana.

Il “ballo sul tamburo” si svolge principalmente nell’ambito delle “feste”, celebrazioni stagionali di ritualità collettiva associate alla religiosità “popolare” e soprattutto al culto devozionale rivolto alle Madonne venerate in questi luoghi.

La tammurriata è espressione diretta della cultura orale contadina ed è  quindi connessa  a credenze e culti  arcaici  antichissimi di origine precristiana.

Al tamburo a mano detto “tammorra” o “tammurro” che è lo strumento principale, si aggiungono le “castagnette” o nacchere, il “putipù” (tamburo a frizione), il“triccheballacche”, e talvolta la cosiddetta “tromba degli zingari” ossia lo scacciapensieri  o marranzano, rarissimamente ai nostri giorni il “doppio flauto” e  nel giuglianese il “sisco”.

Su tale tessuto timbrico in cui lo strumento essenziale è il tamburo a mano, poggia quasi sempre un canto di tipo essenzialmente sillabico, ed il tutto assume una particolare forma musicale. Il canto attinge per i versi ad un tradizionale “corpus” o repertorio di strambotti endecasillabi che vengono articolati per lo più a due versi per volta (cioè per distici). In tal modo la struttura musicale di questo tipo di canto si chiude ogni due versi.

Naturalmente tale forma più diffusa, subisce poi variazioni a secondo delle zone dei cantori, pur rimanendo di massima fedele a questa forma di base.

Il ritmo, essenzialmente binario, scaturisce dalla tradizionale scansione metrica dei versi che sono endecasillabi ma che subiscono dal punto di vista del numerico delle sillabe molte modifiche. Il ballo viene eseguito all’interno del “cerchio” composto da suonatori, “cantatori” e da tutti i presenti che ne costituiscono al pari dei danzatori una parte sostanziale.

Come ballo di coppia la tammurriata non va intesa unicamente come danza di corteggiamento, infatti essa si realizza anche tra persone dello stesso sesso e può comunque esprimere valenze diverse a seconda del tipo di comunicazione che si viene a determinare tra i due danzatori.

La gestualità somatica del ballo è molto complessa e tende a far affiorare movenze che possono rapportarsi a gesti tipici del lavoro quotidiano contadino, a gesti naturali, di imitazione di animali, magici, e altro ancora. Nel momento collettivo, tutta la gestualità della danza assume un valore rituale ed un significato simbolico.

 

 

Tratto da: “La Tarantella Napoletana ne le due anime del Guarracino”

di Roberto De Simone

 

Il termine tarantella ricorre per la prima volta nel 1641, in una pubblicazione scientifica del gesuita A. Kircher, e ricorre in riferimento alla danza in   uso a Napoli per curare i tarantati, ossia per curare quelle persone che, credendosi morse o realmente punte dalla tarantola, cadevano in crisi di possessione, dalla quale guarivano danzando secondo un repertorio di musiche tradizionali.

Difatti, così scrive il Kircher, presentando i modelli musicali rilevati a Napoli in quegli anni:  “Aliam melodiam hic Neapoli mihi transmissam adiungo, quam veram Tarantellam dicunt, ego tamen re bene examinata, ecc..”. (Aggiungo che qui a Napoli mi è stata trasmessa un’altra melodia, che definiscono l’autentica Tarantella;  io, tuttavia, esaminata attentamente la questione, ecc..). Insomma, nel Seicento a Napoli era presente il fenomeno del tarantismo, curato tradizionalmente con una danza liturgica, detta «l’autentica Tarantella».

Evidentemente, tale danza era eseguita esclusivamente nelle occasioni in cui i posseduti danzavano, né aveva altra funzione nella tradizione popolare. Questo è il motivo per il quale la danza non è stata mai menzionata dagli scrittori napoletani del Cinque e del Seicento, i quali peraltro erano solertissimi nell’esemplificare le danze tradizionali che erano in uso a quel tempo. Il tabù sul termine «tarantella» era dovuto in parte alla drammaticità della manifestazione cui era collegata la danza, e in parte alla censura controriformista, che guardava con sospetto a manifestazioni magiche come il tarantismo, in cui era evidente il fenomeno della possessione da parte di spiriti e demoni, identificati tradizionalmente con le mitiche tarante.

Orbene, il repertorio musicale connesso al tarantismo era molto vasto (in Puglia si osservava una gran varietà di canti e di ritmi) ma a Napoli, come dichiara il Kircher, era in uso una particolare musica molto animata, con andamento binario in sei ottavi o in dodici ottavi, chiamata “la vera tarantella”.  Purtuttavia, già verso la fine del Seicento, il tarantismo cominciò a sparire dalla città di Napoli, permanendo solo in provincia.

Difatti, lo Storace (un viaggiatore di passaggio per Napoli) nel 1735 osservò a Torre Annunziata un posseduto in crisi di tarantismo, guarito, come egli narra in una lettera, con l’esecuzione di una tarantella suonata con il violino. Lo Storace trascrisse anche la melodia, pubblicata recentemente da Diego Carpitella in “La terra del rimorso”.

Esauritosi in Città il fenomeno del tarantismo, il repertorio musicale connesso alla danza magica perse i suoi caratteri liturgici, ma rimase nella tradizione con altre funzioni.

I testi delle arie confluirono nel repertorio dei cantastorie girovaghi, e i modelli musicali dell’antica danza, in vari frammenti, si ritrovano rifunzionalizzati in varie canzoni, o in danze collettive o processionali.

Nel 1699, la danza a Napoli appariva già sostanzialmente desacralizzata, ed in tali termini ne fa cenno lo Stigliola, nella sua Eneide:

 

Orfeo vestuto a lluongo co la stola

de saciardote, accorda la vocella

co ssette corde, e ffa co la viola

mo na ceccona e mo na tarantella

 

Insomma, solo nel Settecento la tarantella cominciò ad essere menzionata dagli scrittori napoletani e stranieri, che, con tale termine, indicavano genericamente una danza degradata dalla sua funzione sacrale a danza di costume. Eppure, con lo stesso termine indicavano confusamente anche il ballo tradizionale accompagnato col tamburo (la tammurriata), e le altre espressioni coreutiche che erano osservabili nella tradizione popolare di Napoli e della provincia.

Successivamente,  nell’Ottocento,  la  tarantella  divenne  anche  danza da salotto, danza folcloristica, si confuse con la quadriglia, diversi musicisti si ispirarono al suo ritmo per comporre delle tarantelle, e la confusione sul termine raggiunse le proporzioni che oggi riscontriamo.

 

 

TRATTO DA “TRIBÙ ITALICHE: PUGLIA”

di Salvatore Villani

 

Il viaggiatore che parte dal Nord Italia e vuole raggiungere la Puglia, passato il Molise ed entrando in terra di Capitanata (l’attuale provincia di Foggia), crede di essere arrivato a destinazione e di poter raggiungere in poco tempo la parte meridionale della provincia di Lecce. L’ignaro viaggiatore si rende presto conto che il tragitto dall’estremo nord all’estremo sud della regione è pari quasi alla distanza tra Bologna e Pescara, l’insieme di tre regioni italiane. Questa distanza si avverte anche nella differenza sostanziale dei dialetti: di tipo campano in Capitanata, a Bari e a Taranto; di tipo calabro-siculo in provincia di Brindisi e Lecce, ossia la regione storicamente chiamata Terra d’Otranto.

La proverbiale lunghezza della Puglia ha profondamente segnato e diversificato le forme della tradizione musicale. I repertori più conosciuti fanno riferimento alle varie forme di tarantelle del Gargano (accompagnate da varie compagini strumentali comprendenti la chitarra battente – strumento arcaico con cinque corde semplici, doppie o triple), di pizzica salentina per il corteggiamento e il tarantismo, ridenominata anche pizzica de core, ballo della taranta o danza dei coltelli, ad alcuni canti in griko sempre di area salentina, e a qualche sporadica tarantella delle Murge.

Ma il panorama musicale pugliese si presenta molto più ricco e variegato, con una complessità di forme non ancora del tutto ricercate e studiate: dai canti monodici e polivocali delle ninne nanne, iterativi, narrativi, liturgici, paraliturgici e legati al ballo, canti nelle lingue albanesi, franco-provenzali e griko, fino alla musica terapeutica per la pratica del tarantismo, agli organici strumentali più disparati (tamburello, castagnole, organetto, tamburo a frizione, chitarra francese, violino…), alla tradizione urbana di artigiani come barbieri e calzolai e alle bande.

Se la documentazione è copiosa per la Capitanata, il Gargano  e il Salento, lo è molto meno per le altre province…..

Tra le molte forme di musica a ballo e di canto presenti in Puglia, interessante è il caso di una delle tarantelle di maggior successo tra le nuove generazioni, ossia la cosiddetta “Tarantella del Gargano” registrata da Carpitella e Leydi nel 1966 e poi ripresa dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.

Il panorama discografico presenta oggi decine di versioni di un sonetto nella forma di tarantella alla Mundanara di Carpino, piccolo centro agro-pastorale della provincia di Foggia, che quasi sempre ha per incipit “Accomë j’èja fa’ p’amà ‘sta donnë” (“Come debbo fare per amare questa donna”), in un inventario stilistico che spazia dalla semplice riproposta al rap, dal jazz alla musica antica e alla riscrittura per orchestra classica. Canto d’amore di serenata per eccellenza e ballo di corteggiamento, la “Tarantella del Gargano” è in realtà una denominazione inventata dal revival degli anni Settanta per identificare e stilizzare in una forma di tarantella tout-court un testo lirico-monostrofico e un accompagnamento della tradizione garganica. Eppure tra i tanti rifacimenti è spesso difficile ritrovare le peculiarità dell’originale esecuzione di Andrea Sacco e dei ‘cantatori’ di Carpino, con l’off-beat (il fuori tempo ‘giusto’), l’alternanza binario-ternario, l’oscillazione della voce verso il quarto di tono e l’uso del sistema non temperato, l’emissione vocale spinta e aperta. La frequente estrapolazione di questa forma da un’articolazione musicale più elaborata e il suo ‘montaggio’ in una sequenza di due tarantelle (p. es. Rurjanë e Mundanara) costruisce perciò un’immagine riduttiva e schematica di un mondo sonoro piuttosto complesso.